Ottobre 2023 – Bagni nuovi per Analaroa e laboratorio d’analisi ad Anivorano

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Organizzare una missione non è mai cosa semplice. Gran parte del lavoro  precede la partenza che quasi sempre viene accolta come atto liberatorio accompagnato dalla speranza che tutto sia stato predisposto senza errori.

Il gruppo in partenza

Il gruppo in partenza

Partiamo da Trento nel primo pomeriggio non senza quel pizzico di euforia che anima l’inizio di un viaggio. Ci eravamo promessi di ridurre il volume delle valigie, ma troviamo mille scuse per portare qualche cosa in più, tanto che il porta bagagli della macchina diventa insufficiente e siamo costretti a trasbordare parte del carico. Nel tragitto verso Malpensa scambiamo opinioni e ripassiamo i compiti che ci siamo suddivisi e che ci spettano una volta raggiunto il Madagascar. Mentre sono impegnato nella guida Carlo ripassa l’elenco dei materiali che dovremmo utilizzare in sala operatoria, Silvano che per la prima colta ci accompagna è curioso di capire cosa dovrà fare ed Enrico, sentendo parlare di villaggi e bambini, già abbozza nuovi progetti.Incontriamo Nadia all’entrata dell’aeroporto e con lei il gruppo si completa. Il volo procede tranquillo e, nonostante le pausa ad Addis Ababa, sorvoliamo in orario la costa del Madagascar. Recuperiamo i bagagli ed usciamo dal rinnovato aeroporto di Antananarivo; fuori ci stanno aspettando le suore con gli autisti Rakoto ed Edmond, conoscenze di vecchia data. È un piacere ritrovare questi amici dopo un anno di assenza.

Lungo le strade di Tanà

Lungo le strade di Tanà

Attraversiamo la città dove nulla è cambiato, se non in peggio. Le prime avvisaglie di povertà si colgono lungo le strade dove stazionano in attesa di un improbabile aiuto bambini di 4-5 anni, soli, sporchi e ricoperti di stracci. Sono i bambini di strada, simbolo di una miseria che colpisce senza pietà.

Spesa al supermercato, cambio della valuta, acquisto delle schede telefoniche efinalmente in albergo per una notte di sano riposo. Un’aria frizzantina ci rinfresca mentre facciamo colazione, prima di caricare sui fuoristrada borse e valigie. Si parte alla volta di Analaroa.

Superato il tratto di strada asfaltata iniziamo lo sterrato che di anno in anno peggiora; zigzagando tra buca e buca guadagno qualche imprecazione dai miei passeggeri che pare non condividano il mio stile di guida. È sera (che alle 18.00 qui corrisponde alla buia notte) quando avvistiamo le luci del dispensario. Anche oggi, come ad ogni nostro arrivo, suore e bambini ci attendono all’entrata con una affettuosa accoglienza. Abbracciamo Gianfranco ed Ostelio che ci hanno preceduti due settimane fa con il compito di predisporre l’impianto idraulico della palazzina in costruzione.

Il sole si infiltra tra le fessure della tenda e ci avverte che il primo giorno ad Analaroa è iniziato. Come automi ci alziamo, usciamo dalle stanze e consapevoli dei nostri incarichi ci disperdiamo per raggiungere la meta assegnata. Enrico, in preda ad una malcelata impazienza, finalmente incontra il suo alter ego malgascio, Cristian, il responsabile della ditta edile. Non c’è tempo per chiacchere perché bisogna analizzare disegni, quote, materiali, tubature, inclinazione del tetto, scorrimento delle acque. È arrivato il capomastro e tutti si mettono sull’attenti. Lo sguardo degli operai dimostra stupore non essendo abituati a tanta vitalità, ma non possono che adeguarsi. Silvano, al quale era stata data l’illusoria speranza di un viaggio di svago, si accorge della cruda realtà quando viene investito da mille richieste d’aiuto che lo portano a correre di qua e di là. Anche donna Nadia viene reclutata: c’è bisogno di sistemare il magazzino dei vestiti e dei materiali sanitari e di redigerne l’inventario, compito che svolge con diligenza, anche se talvolta sembra svanire nel fumo dell’immancabile sigaretta. Carlo ed io ci occupiamo del blocco operatorio, verifichiamo ildelle apparecchiature, cataloghiamo i materiali e ci assicuriamo di essere pronti per la prima seduta operatoria. È da qualche mese che sono lontano dal tavolo operatorio e avverto un po’ d’apprensione che si dissolve nel constatare, nel ripasso mentale, che in memoria i tempi tecnici degli interventi sono ben conservati.

Al lavoro

Al lavoro

Ci raggiunge l’equipe di Donatien, l’amico anestesista che da dieci anni collabora con noi; di lui ho piena fiducia perché ne conosco professionalità ed umanità. Insieme visitiamo i tanti bambini selezionati dalle suore ed accolti nel dispensario in attesa di essere curati. Valutiamo piedi, arti malformati, ernie, pisellini da circoncidere ed altro ancora. Finiamo per stendere una lista operatoria ed un calendario settimanale di operazioni. L’indomani Carlo è in sala di buon mattino. Lo raggiungo. Il piccolo paziente giace addormentato sul letto operatorio. Valuto le sue tibie ricurve in attesa che lo strumentista di lungo corso mi faccia cenno che possiamo iniziare. La mano si muove seguendo schemi consolidati dalla conoscenza e dall’’esperienza (non si invecchia inutilmente!); mai come nelle circostanze in cui lavoriamo la sinergia tra chirurgo e strumentista è fondamentale per assicurare un buon risultato. Un ultimo punto di sutura ed abbiamo finito.  Guardo soddisfatto le gambine raddrizzate e penso alle corse che consentiranno di fare a questo monello.

Usanze locali

Usanze locali

Le lunghe sedute di sala operatoria non ci lasciano molto tempo libero; correggiamo piedi e gambe, curiamo ernie, testicoli e tanti pisellini per i quali i genitori ci chiedono la circoncisione rituale. Siamo restii ad assecondare la loro richiesta, ma sapendo che l’intervento potrebbe essere eseguito da mani inesperte ed in condizioni igieniche discutibili, cediamo al taglio ed alla cerimonia che l’accompagna: il pezzettino di pelle asportata va consegnato al nonno del bambino che provvede a mangiarlo insieme ad una banana, completando una procedura che sancisce l’entrata ufficiale del piccolo nella famiglia.

Al di là del blocco operatorio continuano le altre attività. Muratori ed idraulici stanno completando la struttura che abbiamo progettato per ospitare gabinetti e docce dedicate ai bambini  e che andranno a sostituire tinozza e secchi fino ad ora usati.

Carlo deve rientrare in Italia e con lui perdo un valido collaboratore; continuo con il solo aiuto di suor Louise e Donatien.

Cucina

Cucina

In un momento di libertà decido di verificare con Enrico l’abitazione dove alloggiano qui ad Analaroa i bambini del villaggio di Morafeno che frequentano la scuola elementare e che stiamo aiutando con il progetto di sostegno scolastico. Si tratta di scolari dai 10 ai 12 anni impossibilitati a raggiungere quotidianamente le loro famiglie. Ai genitori avevamo dato un contributo finanziario per affittare una stanza che li accogliesse. Giunti sul posto ci rendiamo conto che i locali sono inadeguati; mancano infissi, il pavimento dove è steso uno sporco pagliericcio è di nuda terra, il tetto danneggiato, le pareti scrostate. Non c’è acqua nè luce elettrica. Le condizioni igieniche sono inaccettabili per cui decidiamo di intervenire incaricando la ditta edile di ristrutturare i locali; provvederemo poi ad arredarli con tavoli e letti. A lavori finiti renderemo disponibili quattordici posti letto in due strutture decorose.

Sono trascorse due settimane dal mio arrivo ad Analaroa ed il tempo si sta esaurendo. Mi concedo per ultima, insieme agli altri amici, la visita a Morafeno, un villaggio molto povero che abbiamo aiutato in più modi nel corso degli anni. Anche in questa occasione distribuiamo alle famiglie vestiti e cibo ed ai più piccoli caramelle e giochi, non tralasciando l’atteso Nutella party.

 Lascio Analaroa accompagnato da Nadia e suor Louise; il momento della partenza porta sempre con sé un po’ di tristezza.  Sono dieci anni che frequento questo dispensario, ma non riesco ad abituarmi al distacco. So di separarmi da un angolo di mondo dove sofferenza e serenità si compenetrano e dove puoi riassaporare i valori sostanziali della vita. Ripercorriamo a ritroso la pista che ci porterà a Tana, optando a metà strada per una deviazione che allunga il tragitto, ma consente una guida più rilassata. Attraversiamo colline che il tempo ed il clima hanno frantumato creando ampie spaccature da dove affiorano scuri massi di roccia lavica.

Le terre dell'altipiano

Le terre dell’altipiano

È un susseguirsi di rilievi che formano al loro incontro piccole valli percorse da rigagnoli d’acqua; qui il terreno è fertile e l’uomo ha ricavato terrazzamenti e campi che coltiva a riso, banane, manioca. Luoghi dove il tempo si è fermato e puoi riscoprire usi antichi, da un aratro di legno trainato dagli zebù, ad un contadino che forgia una zappa, ad una donna che china sul campo confeziona covoni di paglia.

 Mi sporgo dal finestrino per salutare una bambina che cammina sul bordo della strada; porta in testa una tanica d’acqua; mi nota, ma finge di non vedermi. Manaona (ciao) le dico, ma non risponde e rapida guadagna la scarpata sottostante per poi scomparire.  I washa (gli stranieri), qui fanno ancora paura.  Anche alcuni aironi disturbati dal nostro passaggio si alzano in volo, sorvolano un’arida ed incolta prateria e svaniscono, come la piccola. All’orizzonte rimangono le nere sagome di solitari eucalipti.

Muoversi lentamente

Muoversi lentamente

Rosso, grigio, verde, giallo si continuano nell’azzurro del cielo e si stendono su una tela che solo la natura sa dipingere. Superiamo piccoli villaggi di capanne dalle pareti in terra rossa e dai tetti di paglia accanto alle quali bambini, oche e galline sostano svogliatamente, svelando con simile espressione incredulità e stupore al nostro passaggio.

La strada si fa più scorrevole, i villaggi più numerosi, i simboli della “civiltà” più evidenti. Lasciamo lo sterrato ed iniziamo a correre sull’asfalto. Le nostre schiene ringraziano, ma il cuore vorrebbe ritornare indietro. Ci immergiamo nel caotico traffico di Tana dove le regole di guida vengono sostituite dalla scaltrezza degli autisti. Mi adeguo all’andazzo e prepotentemente guadagno un posto nella lunga fila che dovrò seguire fino alla casa madre delle Orsoline.

Nadia ed io pernottiamo all’hotel Gregoire. Non sarà un quattro stelle, ma possiamo contare su una rilassante doccia ed una cena di fritto, a base di rane e pesce: piaceri che ripagano la stanchezza.

Ripartiamo al mattino con meta Anivorano est. Il fondo stradale è meno dissestato e consente una velocità ieri impensabile. È una delle poche vie asfaltate del Madagascar e collega la capitale con la città di Toamasina sede del più importante porto marittimo del Paese. Per questo motivo risulta molto trafficata, soprattutto per la presenza dei camion che trasportano container da e per il porto. Purtroppo, sono quasi tutti autotreni datati e sottoposti a stress meccanici, condizioni che causano frequenti guasti e se consideriamo le caratteristiche del percorso con continue salite e discese, si giustificano i frequenti e prolungati rallentamenti che dobbiamo subire.

Verso Anivorano

Verso Anivorano

 Il paesaggio in questa regione orientale del Madagascar è diverso da quello che circonda Analaroa. Le brulle praterie sono sostituite dalla foresta pluviale con palmeti, bananeti e boschi di eucalipto. Il verde la fa da padrone e ristora la vista, allentando il disagio di cinque ore di marcia. Ci fermiamo nella cittadina di Moramanga quando siamo a poco più della metà del viaggio.   Anche qui c’è trambusto ed il continuo via vai di Pousse Pousse, le caratteristiche carrozzine a pedali o trainate a braccia, induce ad essere ulteriormente prudenti.  Non è facile evitarli, ma con un po’ di fortuna riusciamo a non fare danni. Ci fermiamo in un modesto ma pulito ristorante ed ordiniamo una bistecca di zebù con patate che troviamo niente male.

 Ritorniamo “in sella” per affrontare i chilometri rimanenti. Le buche si fanno più frequenti e profonde, non sempre evitabili e quando le centriamo Nadia e Louise sono costrette a sobbalzi improvvisi che accompagnano con sommesse giaculatorie. L’oscurità ci avvolge nel momento in cui dalla strada asfaltata deviamo sulla pista che ci condurrà ad Anivorano. È uno sterrato di buche, fosse e canali, certamente peggiorato da quando l’ho percorso l’ultima volta. Un vero inferno per noi e la povera Nissan. Siamo stanchi e quando in lontananza spuntano le luci del dispensario per noi sono un segno del cielo: dopo otto ore tutto è finito.  Riabbracciamo suor Jaqueline, suor Josephine e le altre suore che premurose ci ricevono e soprattutto ci offrono una cena coi fiocchi. Nel corso della giornata non abbiamo prestato attenzione a come sia cambiata la temperatura, ma ora ci rendiamo conto di essere circondati da una cappa caldo umida, opprimente, alla quale non possiamo opporci.

La nostra sveglia

La nostra sveglia

La notte trascorre in un dormiveglia inquieto, reso ancor più tormentato dalle punture delle zanzare. Mi tornano alla mente le notti trascorse in Togo, soffocanti, angoscianti e spero di non riviverle qui. Ad una imprecisata ora del mattino il gallo canta ed accolgo questo inno come un annuncio liberatorio. Mi alzo barcollante, ma vivo.

Giro di ispezione del dispensario; visitiamo le stanze di degenza, riapriamo il blocco operatorio, controlliamo la farmacia, verifichiamo lo stato dei lavori della nuova ala della scuola, facciamo la conoscenza di Patrik, il tecnico di laboratorio. Con Nadia stendiamo un programma di interventi: inizieremo con il sistemare i materiali stipati l’anno scorso nei magazzini del blocco per poi dedicarci al nuovo laboratorio d’analisi. Sono giornate piene, certo non facilitate dalla calura, ma appaganti. La sera è il momento più tranquillo. Dopo la cena sostiamo all’esterno del refettorio per apprezzare quel po’ di frescura che il giorno ci ha negato. Le ragazzine ospiti del dispensario ci coinvolgono nei loro giochi e rimango stupito da come ricordino alla perfezione canti e filastrocche che lo scorso anno ha loro insegnato Guido.

Da Analaroa arrivano notizie confortanti: Gianfranco ed Ostelio hanno completato l’impianto idraulico così come sono finiti i lavori edili ed è in fase di ultimazione anche l’allestimento dei pannelli fotovoltaici con gli accumulatori per l’acqua calda.

La barcambulanza

La barcambulanza

Sono curioso di verificare il funzionamento della barca ambulanza il cui motore ci aveva dato qualche problema appena montato. Organizziamo un’uscita sul fiume. Portiamo anche suor Jaqueline, restia a partecipare per la paura dell’acqua, ma curiosa di vivere questa avventura. Raggiungiamo la riva dove è ormeggiata l’imbarcazione e ci disponiamo sulle comode panchine. A prua armeggia l’uomo che ha il compito di controllare la profondità del fondale mentre a poppa siede il timoniere. Alcuni incuriositi spettatori ci osservano e sussultano quando il potente Honda FB40 si mette in moto. La barca corre veloce e supera facilmente altre imbarcazioni che scompaiono alle nostre spalle. L’aria che arriva sui volti ci porta una frescura deliziosa. Di tanto in tanto dobbiamo rallentare per impedire che l’elica tocchi il fondale, ma subito riprendiamo la corsa tra campi di banani e manioca che ornano le rive. Incrociamo una lunga zattera fatta con caschi di banane; su di essa è montata una tenda ed accanto stazionano due uomini ed una capra. Si sta dirigendo a Brukeville, dove le banane verranno vendute. Accenniamo un saluto che gli sconosciuti passeggeri ricambiano. Il sole sta tramontando ed esaudiamo le preghiere di Jaqueline per affrettare il rientro. Missione compiuta: la barca è collaudata con successo.

 Il tempo stringe e bisogna dedicarsi al laboratorio d’analisi. Con Patrik e suor Louise sistemiamo le attrezzature inviate con il container. Mi accerto che diano segno di vita al momento di essere avviate dopo di che lascio a Patrik il compito di procedere. In cuor mio ho qualche dubbio su un loro corretto utilizzo, ma mi devo ricredere perché il tecnico si dimostra competente. Sollevato esco dal laboratorio per dedicarmi ad altro. Poche ore dopo suor Louise mi rincorre lungo il viale del dispensario; ho paura che qualcosa sia andato storto, ma sul suo volto scorgo un sorriso quando mi porge dei fogli che riportano i risultati delle sue analisi. Emocromo, elettroliti, enzimi, coagulazione…. sono li davanti ai miei occhi a dimostrazione che tutto va bene. Un altro sogno si avvera e sono felice. La possibilità di eseguire questi esami consentirà di diagnosticare, curare e seguire il decorso di molte malattie; una opportunità sino ad oggi impossibile per tanta gente di qui.

I nuovi bagni di Analaroa

I nuovi bagni di Analaroa

Anche ad Analaroa tutto procede per il meglio ed Enrico al telefono mi descrive soddisfatto i lavori eseguiti e la meraviglia di suor Odile e di suor Monica nel momento in cui hanno visto per la prima volta i bambini sotto le nuove docce.

Dai, provaci da solo!

Dai, provaci da solo!

Scoppio poi a ridere quando mi racconta con quanta angoscia e stupore i piccoli si sono accostati a quei “bastoni” da cui usciva acqua calda! Finalmente molti bambini, non solo ospiti delle suore, potranno apprezzare un bagno caldo, fatto in locali puliti, in un ambiente a loro dedicato. Onore ad Enrico, Gianfranco, Ostelio e Silvano!

 La nostra permanenza ad Anivorano si conclude. Salutiamo le suore che ci hanno ospitati con grande disponibilità a conferma di un’amicizia consolidata. Riprendiamo il viaggio verso la capitale. Ci concediamo una breve sosta al parco naturale di Antasibe-Mantadia perché Nadia vuole a tutti i costi vedere i lemuri. Questi primati, ormai relegati in aree protette, sono l’emblema del Madagascar. In particolare, il parco ospita l’indri-indri, un vero peluche vivente ricoperto da una pelliccia bianca e nera. Staziona quasi esclusivamente sulle piante nutrendosi di foglie.

Comodo

Comodo

Accompagnati da una guida entriamo nel folto di una foresta lasciata intatta dall’uomo; numerose piante di orchidea pendono dai rami e con qualche difficoltà su un troco riusciamo a distinguere alcuni camaleonti, perfettamente mimetizzati con la corteccia. Strane grida provengono dall’alto e seguendo l’indice della guida puntato in direzione di un ramo scorgiamo un bellissimo orsetto, poi un secondo ed un altro ancora. Per uno come me abituato a   camosci e marmotte è un’esperienza unica. Certamente lo è anche per Nadia.

 In anticipo sulla tabella di marcia raggiungiamo la periferia di Tana e ci tuffiamo nel traffico. Dovremmo incontrarci con il resto del gruppo che sta rientrando da Analaroa. L’appuntamento è previsto alla casa madre delle Orsoline, ma inaspettatamente compare, davanti a noi, la Land Rover di Edmond. Procediamo in colonna fino alla meta dove finalmente la compagnia si ricompatta. Trascorriamo due giorni in capitale dedicandoci alla visita di alcune ditte, ma riusciamo a ritagliarci del tempo per una gita ad Anosy, un luogo incantato in riva ad un lago sede di un piccolo dispensario gestito dalle Orsoline. Guardando lo specchio d’acqua ai piedi della villetta in cui pranziamo con Enrico abbozziamo l’dea di costruire qui una casa accoglienza per i volontari di Chirurgia Pediatrica Solidale! Un piacevole, irrealizzabile sogno.

I paesaggi del Madagascar

I paesaggi del Madagascar

Un cielo minaccioso ci accoglie al rientro. Si sta facendo sera e cadono le prime gocce di pioggia. Non ci fanno paura fino a quando non si trasformano in un muro d’acqua che investe violento il fuoristrada. Nell’oscurità ci rendiamo conto di non avere le idee chiare sul percorso da seguire per raggiungere l’albergo. In centro città affrontiamo un traffico impazzito e gente che corre da ogni parte alla ricerca di un riparo. Improvvisamente un tergicristallo vola via e la visibilità, già precaria, diventa nulla. Al mio fianco Gianfranco cerca in qualche modo di rimediare all’inconveniente, ma non c’è nulla da fare. Non sappiamo dove siamo né dove dobbiamo andare. Intanto le strade raccolgono l’acqua di improvvisati torrenti e si trasformano in fiumi. Alcune automobili abbandonate dai conducenti galleggiano in un piccolo lago formatosi in una piazza che anche noi dobbiamo attraversare. Non so cosa fare e devo contrastare una sensazione di panico. Decido di tentare il guado. Il livello dell’acqua è tale che inizia ad infiltrarsi da sotto le portiere. La macchina comunque procede; premo l’acceleratore e continuo ad avanzare. Dai miei compagni non una parola, solo lo scroscio della pioggia. Il livello del lago pare abbassarsi, gradualmente riemergiamo. Un ultimo sforzo e siamo fuori. Sento un sudore freddo sul viso, ma so che ce l’abbiamo fatta. Procediamo per un centinaio di metri e miracolosamente compare l’insegna dell’albergo. Prima di scendere ci guardiamo l’un l’altro e scoppiamo a ridere: è l’effetto finale della paura.

Le valigie sono pronte, le completiamo con qualche oggetto ricordo, del pepe selvatico, un po’ di vaniglia, una borsa di rafia. Carichiamo il fuoristrada sotto un sole che è tornato a splendere e raggiungiamo l’aeroporto. È il momento del saluto rivolto a chi rimane, ma anche a questa terra cui siamo sentimentalmente legati. Lo esprimiamo con un abbraccio che non vorrebbe aver fine.

Tornando a casa

Tornando a casa

I motori del Boing 777 sono accesi. Le hostess completano le procedure di sicurezza. Ognuno di noi ritorna ai propri pensieri, alle proprie emozioni.  Forse non vorremmo staccarci da questa pista che attraverso gli oblò vediamo fuggire. Sorvoliamo la città smisuratamente distesa, le migliaia di piccole luci di piccole case dove si consumano storie di misere esistenze. Scorrono sotto di noi le rosse colline, le praterie bruciate dal sole. Le lasciamo alle nostre spalle, immobili nello spazio e nel tempo come immobile rimane la povertà degli uomini che lì vivono.

Ritorneremo? Nessuno sa quale futuro la vita ci riserva, ma anche fosse l’ultimo viaggio ho la certezza che il nostro lavoro non è stato vano, che abbiamo tracciato un sentiero che altri potranno percorrere e che quel bambino che ha ripreso a camminare, quel vecchio che ha ritrovato il sorriso, che il piccolo che ha avuto il coraggio di ricevere l’acqua da un bastone non dimenticheranno questi washa e potranno affermare che anche gli uomini bianchi possono essere fratelli.